E’ con molto piacere che pubblichiamo un articolo inviatoci dalla Prof.ssa Maria Grazia Ferraris in ricordo di Renée Reggiani.

L’articolo è “fatto prevalentemente di citazioni dalle sue lettere a me indirizzate, che hanno caratterizzato la nostra anomala e cordiale amicizia, nata in occasione della pubblicazione di “Azzio: nel cuore” da me curato e presentato.” La professoressa Ferraris si occupa da anni di critica letteraria ed, in particolare, studia il contributo della scrittura femminile del Novecento e le opere di Gianni Rodari, sui quali pubblica numerosi saggi. Altre sue opere edite sono sillogi poetiche, raccolte di racconti ed Antologie di autori vari. Le è stata inoltre dedicata una scheda biografico-critica sul Dizionario critico della letteratura italiana (2017, ed. Helicon).
Per le edizioni Menta e Rosmarino, di Cocquio (VA) nel 2014, ho curato e presentato il volume Azzio: nel cuore, di Renée Reggiani; oggi il volumetto è del tutto esaurito.
I testi antologici presentati erano legati alla vita ad Azzio negli anni Trenta-Quaranta, (La casa dei nonni. I bachi da seta . Il fieno. La vendemmia…) vissuti dalla scrittrice allora adolescente. Alcuni illustravano l’ amore per il paese, le sue tradizioni, i lavori nei campi, altri – l’ultimo – le vicende socio-politiche del tempo che si innestano nella grande storia: Garibaldi a Luino, un classico delle nostre zone, rivisto con la fantasia, ricordando il nonno garibaldino con il figlio di Garibaldi, Ricciotti, che sulla sua bara volle la camicia e il “chepì” rossi, e la catastrofe economica, la Crisi del Tessile, degli anni Trenta, che anche da noi lasciò le sue vittime: pagine che erano un ricordo affettuoso dell’Autrice.
Infatti Renée Reggiani, scrittrice di larga fama, ad Azzio, il paese della Valcuvia, ha vissuto in quegli anni ed è ancora ricordata. Tutti i racconti facevano parte di un romanzo – inedito –: 1934 – Un anno con Hitler e Mussolini, che intendeva pubblicare.
Un caso fortunato (la conoscenza comune di amici di Azzio, rimasti tali nel tempo), mi ha permesso di mettermi in contatto con lei.
“In ricordo della nostra infanzia serena, di Azzio, del Medirolo e di tutto quello -i bei ricordi- che nessuna ipocrisia e ingiustizia potrà mai toglierci.”
Questa è la dedica che l’Autrice affida nel ricordo sempre vivo della sua presenza nel paese della gioventù agli amici Pedotti di Azzio.
“…Il Medirolo, …quel terreno bellissimo vicino alla chiesa del Convento, con un castagno centenario, meta di passeggiate, feste estive… E poi la natura generosa: l’orto delle meraviglie, …il pruno che dava prugne verdi dall’indimenticabile sapore, il ciliegio, l’albicocco umile che produceva frutti screpolati ma dolcissimi, il fico dai regali meravigliosi, il verde delle vallette circostanti, i silenzi, i giochi, arrampicata su alla biforcazione dei rami, il rifugio preferito e indimenticato…”., così ricorda, al telefono, Renè Reggiani, legata affettuosamente al ricordo della sua infanzia e delle sue mai scordate amicizie azziesi.
Ne è nata una corrispondenza … e un regalo da parte della scrittrice: “ una serie di pezzi” di ricordi, sulla sua felice infanzia e su Azzio, di cui la scrittrice mi ha fatto omaggio e un regalo: “ un lungo pezzo” di ricordi sulla sua felice infanzia, sui nonni, sul padre e la madre e su Azzio.
Dalla corrispondenza e successiva amicizia telefonica con la scrittrice, (che ha vissuto lungamente a Roma e che ci ha lasciato nel 2019 – e lo scopro solo ora dalle notizie sulla nascita nel 2020 della Fondazione a lei dedicata), ne è nata una conoscenza profonda, di cui vado orgogliosa …
Emerge l’amore per un “Azzio perduto”, come dice l’Autrice, “nelle nebbie del silenzio” che vale la pena di ricordare, perché davvero tutto non svanisca nel mare grigio del tempo.
Dal proseguo della corrispondenza e l’amicizia con la scrittrice, sempre attiva ed intellettualmente impegnata, è derivato un secondo regalo: la revisione definitiva del romanzo inedito suddetto, di cui la scrittrice mi ha fatto omaggio della versione integrale.
Il romanzo è molto corposo: 33 capitoli introdotti da un riassunto tematico talvolta di sapore ironico. Alcune pagine la ricordano bambina nei nostri paesi.
L’inizio del romanzo presenta il fatidico anno 1934.
“Un anno è un anno. Ciò che contiene gli appartiene soltanto a posteriori, eppure, poi, ci ricordiamo di “quell’anno”come di qualcosa di strettamente legato alla nostra vita. Stupiti felici o disperati di “quell’anno”, quasi “quell’anno” fosse stato l’artefice della nostra gioia, della nostra soddisfazione, del malcontento o della disperazione.”
In una lettera, rispondendo alle mie pressanti richieste di ricordi, per proseguire la pubblicazione di Azzio: nel cuore, ricordi anche storici, ormai novantenne, mi scriveva rievocando un’amicizia giovanile, l’amica Roberta:
“Questa è una storia vera che ho vissuto tanto tempo fa quando ero giovane. Non riesco a dimenticarla, come fosse accaduta non così lontana nel tempo. E so che l’ho vissuta, allora, senza quasi saperlo. In un cero senso come adesso: senza rendermi ben conto di quanto, nonostante non fosse una storia “mia”, mi appartenesse.
Così come mi appartiene ancor oggi. E un po’ mi ossessiona.
Perché c’era la guerra.
La terribile Seconda Guerra Mondiale.
E c’erano, purtroppo, i tedeschi.
Non tanto in quanto tedeschi, la Storia ci ha detto tutto, chi non lo sa?, ma in quanto succubi alla follia Nazista.
Anche in questa storia c’entrano- e come, ahimè!- i tedeschi. Anche se personalmente, io non ho avuto la fortuna di non incontrarli mai. Salvo, di sfuggita, in un tragico, per colpa- posso dire così?- di Roberta.
Eravamo sfollati- così si diceva allora- nella adorabile casa dei nonni, che io amavo moltissimo e che porto, ancora e sempre, dentro di me, a Azzio, appollaiato sulle piccole montagne tra Varese e il lago Maggiore.
Nell’appartamento all’ultimo piano, che mia madre aveva scelto, ammobiliato e sistemato per le vacanze d’estate, adesso c’erano le meravigliose stufe BECHI, dal confortante respiro regolare quando, verso sera, si riempivano di legna e si accendevano. Non so davvero cosa avremmo fatto senza quelle stufe. Saremmo morti assiderati.- d’inverno eravamo circondati dalla neve, alta quasi cinquanta centimetri- e ci saremmo trasformati in statue di ghiaccio, a cui nessuno avrebbe dato , nel tempo, importanza di resti da studiare.
Mia madre aveva avuto il buon senso e il tempismo di “sfollare” anche i mobili, tra l’altro alcuni di valore (mio padre adorava l’Ottocento francese, il cosiddetto “Impero”, fra i quali un “pezzo” eccezionale, appartenuto al nonno Reggiani, unico nel suo genere, e, a quanto pare, anche in Europa.. ). Uno studio completo di poltroncina incorporata con cassetto laterale- ora si ride, ma all’epoca doveva essere importante- spazio per la sputacchiera! Ampio scrittoio rientrabile e un altro da poter estrarre- con relativi cassettini- per scrivere o far di conto (come si diceva) in piedi. Una vera meraviglia di originalità d’arte più che di falegnameria. Di fronte al quale, o seduti a lavorarci- a scrivere, cosa che ho fatto per tanti anni quando, spostato poi a Roma, ci si muoveva con ammirazione e rispetto.
Salvo! E così quasi tutto il resto…
”Just in time” avrebbe detto l’amabile grande Dickens che, sono certa, quel “MOBILONE”, come l’abbiamo sempre definito, avrebbe molto amato ed apprezzato. Anche perché, alla fine, così complesso e completo, diventava quasi “ironico” nella sua complessità.
Appena in tempo, sì, perché di lì a poco spezzoni incendiari riducevano il nostro appartamento di Milano in un mucchio di cenere (bruciato del tutto la camera da letto dei genitori, rifacimento a imitazione di mobilio del 1700). E, vera tragedia, in cenere la piccola azienda di papà, di caratteri di stampa, che, allora, facevano dei libri delle piccole perfezioni (mentre oggi, le frettolose e numerose copie talvolta risultano illeggibili).
Già ero bilingue fin dalla più tenera infanzia, francese uguale italiano, dato che la mia madrina di battesimo era francese e avevo avuto una straordinaria insegnante in Mademoiselle Eugenie Sayétat, di Grenoble, rinomata, a quanto pare, per la “prononciation”. E per la quale ero, inevitabilmente sempre “une tête de linotte”, ossia una sciocchina distratta, benché leggessi già con lei-divertendomi moltissimo- delle commedie di Molière.
Avevo dunque deciso nel modo più assoluto di andare a una scuola un po’ diversa dalle altre, molto conosciuta a Milano, dove le lingue erano lo scopo principale e tutto il resto come gli altri Licei, ma senza greco né latino.
Una scuola tutta femminile la “Superiore Manzoni” con una sede fuori dal comune, in un palazzo antico piazzato all’ingresso dei grandi Giardini Pubblici di Milano, sui quali aveva un’insolita vista di alberi e di verde.
Insolita anche la scolaresca, diffidente verso chi non fosse più che serio e applicato.
Nella mia classe, un gruppetto, capitanato dalla prima della classe e quattro sue adepte, dopo essere stata guardata come un’intrusa, ma dopo soprattutto una fantasmagorica interrogazione sui verbi irregolari francesi -ben inteso che, ahimè, sono una pletora, anzi un ferocissimo plotone- là ero stata accolta, richiesta anzi felicemente come quinta adepta in quello che sarebbe stato il formidabile “sestetto”. Roberta, lei era rimasta la mia migliore amica…
Dove diavolo andassimo in bici- del resto ottimo mezzo di movimento data la mancanza assoluta di altri sistemi, per via della mancanza di benzina- proprio non lo so.
Forse al lago Maggiore, Laveno è a un passo da Azzio, con le sue ville lungo la riva. E anche Luino non è poi così lontana, a fare il bagno, oppure da certi conoscenti a Cocquio, quelli che avevano degli spaventosi cani Doberman che parevano sempre sul punto di assaltare e far fuori con denti acuminati chiunque non fosse della famiglia.
C’erano amici e conoscenti delle nostre famiglie un po’ dappertutto e tutti o quasi avevano figli o nipoti della nostra età.
Un’altra compagna di scuola di mia madre, mi pare (oltre la zia Totò di Roberta: con lei erano compagne anche della figlia di Toscanini, Wally) aveva una molto bella ricca villa a Gavirate.
Il suo perfetto campo da tennis attirava i giocatori. Non me certo. Ma ci andavamo con piacere abbastanza spesso ugualmente. Al ritorno, prima della guerra, tornavamo a casa- ci andavamo in auto con la mamma e papà- con un goloso rifornimento di certi deliziosi dolcetti denominati “brutti e buoni”.
Anche in Svizzera si andava, quando eravamo muniti di auto.
Lugano era proprio, come si dice, “voltato l’angolo”, dopo Luino. Addio meraviglioso cioccolato nella scatola rossa a “ramages” dorati: “Frigor”, mi pare, che io adoravo….
Poi, la notizia.
Tragica.
Ineluttabile.
Riccardo era stato arrestato.
Dai tedeschi, dai fascisti, servi dei tedeschi che ormai comandavano.
E mandato a Buchenwaldt.
Le notizie erano- ben lontani i tempi in cui non ci si poteva credere- che da quei campi, dopo sofferenze inaudite, non si usciva più.
Morte sicura.
Molti anni dopo, mio marito mi raccontava di quando, nella sua Verona natale, era capitato in mezzo a una retata fascisto-tedesca ed era riuscito a gettare i volantini che stava distribuendo in un gabinetto della ultra-famosa Arena. Cavandosela miracolosamente.
Purtroppo, Riccardo, non so se anche lui per via dei volantini o per qualche altra ragione, era stato scoperto in flagrante- se così si può dire- di anti-nazismo, antifascismo.
Sapevamo, con spavento e tristezza, che non l’avremmo rivisto più….”. Questo il tragico episodio rievocato.
Lei impara, nolente, tra l’amore per il risotto alla milanese o comunque in qualsiasi altra forma e il rifiuto delle odiose castagne “peste” con il latte,il significato di vita e morte, di utopia e libertà, il senso della storia, l’importanza del ricordo e della rielaborazione del vissuto.
Così come la sua passione per la scrittura.
A buon diritto l’Autrice può concludere: “… io, microcosmo di grandi macrocosmi letterari, all’inizio mi sono trovata in difficoltà perfino per i romanzi dedicati ai giovani, che hanno suscitato sospetto e addirittura scandalo: c’era in Italia allora, come in altro modo adesso, uno sconfortante conformismo …cui era saggio uniformarsi. Così non ho mancato di scandalizzare…, ma penso che non si debba lasciare tranquillo il lettore, anzi si debba scuoterlo…, direi addirittura che <deve> indignarsi.”
Maria Grazia Ferraris